domenica 7 ottobre 2012

Il cavallo da soma - storia di armonie e di talenti (un racconto per la mia mamma)

C'era una volta un contadino che aveva una coppia di cavalli da lavoro. I cavalli erano entrambi forti e grandi, trainavano il carro e l'aratro del contadino, portavano la legna, il fieno e servivano il contadino come meglio nessun cavallo avrebbe fatto. Il contadino li trattava con ogni cura e ne era così orgoglioso che ogni anno alla Fiera del Paese li portava in mostra e ne mostrava e decantava le lodi a tutti i suoi concittadini. Immancabilmente venivano premiati, o l'uno o l'altra, e tornavano a casa con le coccarde appuntate alla testiera. C'era un legame intenso tra il contadino e le due bestie, che andava ben oltre il lavoro quotidiano: erano della stessa razza, cavalli e uomo. Lavoratori instancabili, con un grande amore alla terra, senza tante pretese per la loro vita, si capivano perfettamente in una sintonia quieta e profonda come il lavoro nei campi. I cavalli erano soddisfatti della loro vita: nati a loro volta da cavalli da soma, vedevano nella loro vita la massima espressione dell'unica vita possibile. Il ritmo della loro vita era intenso ma sempre lento. Scandito il passo nel lavoro per il peso da portare o da trainare, rimaneva così in ogni momento della loro vita esplodendo in un trotto appena allungato quando il contadino scendeva in paese con il carretto leggero ogni domenica. La strada sterrata che usciva dalla piccola fattoria s'incurvava ed inarcava, fino al paese, come un serpente al sole. Nelle discese il carretto quasi li invitava ad aumentare il passo, ed ogni domenica sentivano il vento fischiare lieve nelle orecchie, la criniera spettinarsi un po', le gambe allungarsi ed un rigolo di sudore scendere lungo il collo, inumidire i finimenti che finivano per emanare quell'odore caldo di cuoio che si sposava così bene con i boschi intorno. Fu proprio una di quelle domeniche – e chissà se fu un caso – che il contadino, aperti gli occhi prima del solito, come spinto da un presentimento, attraversò il cortile e la brina d'autunno, fino alla stalla. Ancora prima di aprire il pesante portone, il contadino percepì il respiro affannato, il nitrito spezzato e soffocato dalla fatica. Sorrise. “Niente gita in paese, oggi” pensò tra sé, improvvisamente gonfio di tenerezza ed orgoglio. La cavalla alzò il capo quando lui entrò. Sembrava un movimento pesante e lento più del solito, con una specie di sorriso. Era sudata e tremava un po'. Il grosso ventre gonfio si contraeva visibilmente smuovendo la paglia ed il fieno profumato. Il contadino non disse niente. Arrotolò le maniche della camicia e si sciacquò le mani. Ancora bagnate e fresche le passò sul muso del suo animale che per un attimo gli si abbandonò come a dargli l'autorizzazione ad essere presente nel momento sacro e grandioso dell'attuarsi della propria maternità. Fu una mattina intensa, al termine della quale una puledra rossa con le gambe sottili ma forti, si sollevò in piedi ficcando la testa sotto la pancia della sua mamma in cerca del primo nutrimento. Il vento aveva preso a soffiare così forte che anche dentro la stalla se ne sentivano le sferzate fresche d'inizio autunno. Il contadino sembrava non accorgersi dell'odore acre che emanava dai suoi vestiti. S'era allontanato dalla cavalla in un gesto di profondo rispetto, di meraviglia davanti alla vita. Aveva sciolto il cavallo compagno di una vita intera perchè annusasse il pelo lucido e umido della piccola. Ed ora li guardava con la strana sensazione di non vedere altro che le gambe lunghe e sottili della nuova nata. Passarono i mesi ed i primi anni. La vita nella piccola fattoria non aveva cambiato di molto. La puledra cresceva incantevole ed agile. Le gambe sottili erano rimaste tali, e davano l'idea di poter appena sostenere il peso lieve della cavalla snella. Il contadino passava ore a guardarla correre senza sosta, piegare il corpo di lato, incurvare la schiena, sollevare le gambe sottili fino a superare il suo cappello, come a fargli notare sempre più che con quelle gambe lui non avrebbe potuto far niente. Il continuo movimento della puledra stonava visibilmente con il ritmo della fattoria, con il passo pesante dei suoi genitori, con i tempi lunghi del lavoro e delle piante da frutto, con addirittura il succedersi delle stagioni. Era un movimento che non si incastrava in nessuna abitudine, in nessun momento del giorno, in nessuna conquista dell'esperienza quotidiana del lavoro nei campi e nei boschi. Il rituale della corsa domenicale fino in paese aveva improvvisamente perso la sua magia. Per ogni sobbalzo delle criniere dei suoi cavalli, il contadino vedeva lo scatto fulmineo della testa della puledra, il collo forte allungarsi nella corsa, le orecchie tese a contrastare il vento. Il turbamento che ne seguiva faceva di lui un uomo ancora più silenzioso, ancora più chiuso di quanto non fosse mai stato. Qualcosa stava tentando di destrutturare la sua esistenza quieta, il battito regolare del cuore del suo lavoro. L'aveva chiamata Fiammetta per il colore del pelo ed in memoria di un'antica storia d'amore. Ma adesso si rendeva conto che quel nome l'aveva scelto il destino, facendo arrivare un lampo di temporale nella bonaccia della sua quotidianità. I due vecchi cavalli da soma la guardavano tranquilli. Come spesso accade, davano per scontato che la puledra fosse come loro, sangue del loro stesso sangue, e quasi non ne notavano il fuoco negli occhi, le narici aperte, la schiuma bianca nell'incavo delle gambe e del collo. Chissà se pensavano che quelle stranezze che inquietavano tanto il contadino fossero frutto della giovinezza, dimenticando forse che nella propria giovinezza non c'erano mai stati scatti improvvisi e scarti di lato. Ma il tempo comunque passò. E venne l'ora della doma. Fiammetta si rivelò un cavallo estremamente intelligente e stranamente docile al contatto. Si lasciò sellare e appoggiò la bocca al morso senza opporsi. Trascorsero in una strana calma i giorni dell'addestramento. La cavalla accettava ed apprendeva ed il contadino, soddisfatto, avrebbe forse dimenticato i suoi timori se non fosse stato per l'inquietudine implacabile che la puledra esprimeva nello sguardo schivo, nei muscoli scattanti. La vecchia coppia di cavalli assisteva invece serena ed orgogliosa ai progressi della piccola. Nessuna paura o sospetto ne turbava il senso di compiuto che quell'addestramento rapido non poteva non provocare. Ma i presentimenti del contadino esplosero quando fu la volta di conoscere l'aratro. Quello che successe fu che Fiammetta, pur rivelandosi abbastanza forte nelle sue gambe sottili e nei suoi muscoli snelli, non riuscì ad imparare il passo di lavoro. L'aratro la tratteneva, ne bloccava l'esplosione della corsa. L'aratro aveva bisogno di ritmo e pazienza e lei scalpitava con gli occhi pieni di orizzonte. Le grosse ceste da carico le pesavano i fianchi, le costringevano il passo, ne soffocavano gli scarti. Il carretto leggero, fonte di tanto piacere per i suoi genitori, era per lei un accessorio quasi impercettibile e la sua corsa insaziabile lo sballottava sui cigli sassosi della strada sterrata. Accettava il peso dell'uomo ma, una volta seduto sulla schiena inquieta, ne distruggeva la serenità atavica, ne trasformava il ritmo, ne accelerava anche il cuore. Il settimo compleanno della puledra la vide quasi dimenticata nel susseguirsi delle giornate lavorative. Osservata ed esaminata alla domenica in cerca di qualcuno che volesse allontanarla dalla piccola fattoria, restituire ai giorni la loro ritmica quiete. C'era ogni giorno un clima di silenziosa sofferenza. Il contadino che non si era mai adattato a quell'elemento di disturbo, a quel punto di vista rivoluzionario, a quel passo che divorava il terreno, a quella bellezza stonata eppure immensa. La coppia di cavalli attendeva paziente e rassegnata la fine di quella gioventù esplosiva, di quell'ansia di distanze, di quell'orizzonte fisso negli occhi. Fiammetta infine, avrebbe voluto essere un buon cavallo da soma. Avrebbe voluto conquistare lo sguardo semplice del contadino, quello sguardo fiero e amorevole con cui lui guardava i suoi genitori. Avrebbe voluto dividere con lui il suo tempo, provare la sensazione di comunione dell'unire le forze nel lavoro. Avrebbe voluto una coccarda alla testiera, avrebbe voluto poter godere del flebile soffio di vento di un trotto appena allungato trainando un carretto leggero la domenica verso il paese. E ci provava ogni giorno. Ogni giorno spendeva le sue energie e la sua volontà nel rallentare il passo, nell'ascoltare il ritmo della terra, del sorgere e tramontare lento del sole, del passare quieto delle stagioni. E trovava, invece, solo il grido del falco, la sua discesa improvvisa, il rotolare delle pietre dalla montagna, il fischio del vento del nord. A volte, nei pomeriggi di riposo dopo la settimana di fatica, il contadino restava a guardarla in quei suoi tentativi goffi di sentirsi cavallo da lavoro. In quei giorni, si sentiva colmare di tenerezza e riprovava ad attaccarle l'aratro, ad esortare il goffo tentativo di rallentare. In qualche modo ne capiva le intenzioni e sperava ogni volta che sarebbe intervenuto il miracolo e che Fiammetta, finalmente, lasciasse tornare la pace tra le staccionate di legno rosso della fattoria. In breve, anche il fieno iniziò a profumare di tristezza. Anche le zolle della terra appena smossa iniziarono ad odorare di attesa e di insoddisfazione. L'ennesima estate di grano e fieno da raccogliere mostrò chiaramente al contadino che era successo ciò che nessuno può evitare: era invecchiato e faticava. Solitario da sempre, con nel cuore e nella testa un vecchio amore passato, e con il ritmo del cuore in subbuglio dalla nascita di Fiammetta, il contadino aveva perso velocemente forze ed energie. Dopo la giornata di lavoro, al calare del sole rosso come può essere solo il sole d'estate, il contadino decise che era giunta l'ora di trovarsi un aiutante. Fu in epoca di vendemmia che alla piccola fattoria giunse il giovane Martino. Martino era figlio tra i figli di un contadino la cui fattoria distava poco più di tre miglia. Tra quanti figli quasi non avrebbe saputo dirlo. Ma che fosse il più piccolo era certo. I suoi fratelli maggiori si occupavano della fattoria del padre, alcuni altri erano andati in cerca di lavoro altrove che la poca terra non dava nemmeno da mangiare a tutti. Ed era giunto anche il momento che Martino partisse. Era un giovane laborioso e sorridente. Quando arrivò alla piccola fattoria il contadino restò a guardarlo a lungo davanti al caffè. Il ragazzo iniziò a sentirsi nervoso di quel silenzioso osservare, ma restò immobile a testa alta sostenendo lo sguardo indagatore. Ci sono momenti in cui si vorrebbe dire qualcosa, in cui si vorrebbe interrompere il corso degli eventi prevedendo una catastrofe o la brutta fine di un'avventura. Ed invece scopriamo che le nostre mani sono immobili e le nostre gambe non si sentono quasi più. E non una parola d'opposizione riesce a venire a galla, quasi che il Destino ci voglia mostrare quanto grande sia la sua forza. Fu così che il contadino non riuscì a dire a Martino che non era uno come lui che stava cercando. Fu così che quel fuoco negli occhi di Martino, che lo inquietava come la puledra, non bastò a respingere il ragazzo. Fu così che Martino salì le scale buie per sistemare le sue cose nella stanza sotto il tetto. I giorni che seguirono avevano il sapore della quiete che precede il temporale. Martino lavorava duro, quello che voleva era diventare un contadino inappuntabile come suo padre e come i suoi fratelli. Non si stancava facilmente e sorrideva quasi sempre. Solo durante il pranzo, consumato tra i tralci di vite e quell'odore di mosto che accompagna la vendemmia, il suo sguardo si perdeva lungo le pendici della collina fino a riempirsi di orizzonte. Venne domenica e Martino avrebbe voluto tornare a casa a salutare la madre, a portarle un regalo comprato con il suo primo salario. Ma era giorno di fiera e sapeva che a casa non ci sarebbe rimasto nessuno. Il contadino preparò il carretto, lo attaccò ai suoi amati cavalli e lo salutò con un gesto.
Poco prima che il portone della fattoria si aprisse per lasciarlo passare, Martino lo raggiunse. “Signore, posso montare la cavalla che è nel recinto?”. Il contadino lo guardò negli occhi. Stesso orizzonte, stesso fuoco. Fece un cenno con la testa e riprese il cammino. Martino si rimise il cappello e corse verso il recinto. Si appoggiò sulla spalla la sella e nella mano stringeva i finimenti. Fiammetta gli si avvicinò curiosa. “Come sei bella, cavallina”, la mano accarezzò il muso proteso, si distese sul collo. Negli occhi quell'orizzonte, quel fuoco, così familiari. La cavalla si fece preparare e Martino salì in sella come se da sempre non avesse fatto altro. Quella domenica le colline non bastarono a saziare la nostalgia delle loro essenze ritrovate. Non bastarono i ruscelli rumorosi e le loro pietre lisce. Non bastarno i boschi, gli alti fusti dei castagni. Non bastarono le vigne profumate, i colli dolci, le discese scoscese. Nessuna cadenza lenta e paziente, nessun carico da rispettare, nessun ritmo da rompere, nessun modello da eguagliare. Nemmeno i cuori erano accelerati. Era, invece, il loro battere naturale più vero. E nell'incedere insaziabile e forsennato, la vera pace. Così iniziò il cammino di lampo, così esplose la miccia della loro vita, il fulimine del loro talento, l'attuarsi fragoroso del destino particolare d'ognuno. Nella fattoria tutto tornò sereno ed infine Fiammetta ebbe la sua coccarda, appuntata, in un mattino d'autunno, alla testiera. Una coccarda rossa come il fuoco, per aver bruciato le distanze, insieme al suo cavaliere. Il contadino, di lontano, nascose un sorriso dietro il cappello.