domenica 5 agosto 2007

mi piace cucinare


non sono brava a fare piatti belli e complicati. Sono brava a fare le cose familiari, i piatti della mia terra, i sapori e gli odori noti. Cosa mi piace di più? mi piace scoprire i dettagli. L'odore della buccia del peperoncino, del basilico appena colto. Distinguere gli ingredienti dalla loro provenienza (come profumano diversamente l'aglio toscano e quello napoletano!), riconoscere un sapore familiare come il pizzichino dell'olio nuovo... vedere le cose che piano piano sotto le mie dita cambiano forma, aspetto, odore e sapore. Mi piace sentirmi sulla pelle la traccia di ciò che taglio, sbuccio, cuocio. Mi piace vedere la faccia della gente quando mangia, come si stringono gli occhi più o meno evidentemente a seconda del piacere. come i sorrisi - quando le cose sono buone - sorgono spontanei e si sposano stupendamente con il movimento morbido della bocca. Mi piace la mia casa che assume un aspetto diverso a seconda di ciò che cucino. Ad esempio adoro fare i dolci il sabato mattina mentre pulisco...la casa diventa via via ordinata e pulita e profumata e nel frattempo si agghinda dell'odore morbido e dolce delle torte semplici...che ne so una torta di mele, una torta di riso, una torta di cioccolato. Ride, la casa, e si pavoneggia al sole se è tempo bello, guarda sbeffeggiante la pioggia o il grigio se è brutto... piccole gioie...

Paolo e Giulia


Paolo lasciò pomposamente risuonare l’ultima vibrazione delle corde della chitarra ad occhi chiusi, preparandosi ad assaporare gli sguardi ammirati dei ragazzetti che lo circondavano. Lo divertiva schermirsi e poi esibirsi. Fondamentalmente era un arrogante, ma non privo di fascino. Chi lo conosceva o lo amava o lo odiava, ma ne riconosceva sicuramente le spiccate doti artistiche e la prontezza di spirito. Aprì gli occhi e restituì, indifferente, la chitarra al legittimo adolescentissimo proprietario, ringraziando e scusandosi borioso di averli annoiati con la sua stentata esecuzione.Si mise il sigaro in bocca e assunse un’aria rapita dall’infinito che mise subito fine all’entusiasta richiesta di bis. Indubitabilmente il mare era la sua spalla ideale. Il lavoro di strumentista che faceva lo sottoponeva ad una fama sommessa e poco caciarona, ma che, all’occorrenza si rilevava sempre estremamente efficace (“Vedi, il mio amico Francesco…De Gregori, intendo, forse lo conoscerai, mi dice sempre che…”). Probabilmente Dio si era addormentato quando quell’anima gli era scivolata nei nostri tempi: nelle vesti di un qualche regnante avrebbe avuto di sicuro un maggior successo. Moderno sovrano, ammantato di sarcastico cinismo, si era scelto il ruffiano di corte più esperto di ogni tempo: internet. Giulia chiuse delicatamente il portatile e sorprese un sorriso clandestino sulle labbra. Si stirò allungando le braccia in alto e rovesciando all’indietro la testa. Paolo Doria era lo strumentista fantasma per eccellenza. In scena se ne stava in ombra, se ne intuivano i lineamenti appena sfiorati dal riflettore ad ogni fine spettacolo quando la Star di turno ne dava il nome in pasto al pubblico distratto ed eccitato. Non concedeva interviste, non appariva nei talk-show, si poteva arrivare quasi a dubitare della sua identità. Paolo Doria, di fatto, non esisteva. Giulia lo rincorreva ormai da mesi. Le serviva quell’intervista. L’ignota voce finalmente registrata, il volto ben ritratto, notizie del suo passato…le avrebbe spianato la strada ufficiale della rivista con cui collaborava da due anni, del giornalismo. Giulia era distratta ma ostinata. Aveva un aspetto quasi fragile, tutta infiocchettata com’era di straboccante emotività. Il suo modo di porsi piuttosto lunatico saltava dalla fermezza insormontabile ad una dolcezza quasi disperata. Si era sposata presto rispetto alle sue coetanee e tutti la ricordavano straordinariamente a suo agio nel vestito di sapore quasi medievale, di un verde molto scuro ma luminoso, simile ai suoi occhi. Lui era straordinariamente bello, i lineamenti nobili e gli occhi azzurri rendevano il suo volto assolutamente incantevole. Si scambiavano tenerezze e sorrisi, mentre gli invitati, variopinta folla di personaggi quasi totalmente incompatibili l’uno con l’altro, a tratti applaudivano a tratti si squadravano con ostile diffidenza. Appartenevano a mondi totalmente diversi. Lui, facoltoso rampollo di famiglia alto-borghese, laureato in giurisprudenza, aveva vissuto tra bei vestiti, auto di lusso e discoteche. Lei, Giulia, era riuscita a svincolarsi anche da quel poco di imposizioni sociali che i suoi avrebbero voluto veder contare nella sua vita. Disordinata sognatrice viveva in una graziosa casetta in affitto con un’amica, stentando divertita ad arrivare a fine del mese in pari con le spese. Si erano conosciuti e innamorati…era stato più facile del previsto, e dopo un anno si erano sposati. Era stato un bel giorno, il suo matrimonio. Erano tornati a casa come ogni sera e avevano fatto l’amore sul divano tra pacchi infiocchettati di pentole e bicchieri e frullatori e fiori dall’intenso odore quasi nauseante. Poi la vita s’era adagiata in una piacevole tranquillità. Le piaceva prendersi cura della casa, aspettarlo tornare da lavoro, alla sera con il suo bel sorriso. Scriveva, Giulia. Le piaceva raccontarsi storie o giocare a fare la critica, quando letteraria, quando musicale. E per gioco era iniziata la collaborazione con la rivista “suggestioni musicali”. E un gioco era rimasto fino a quando il direttore non la chiamò nel suo ufficio. Giulia aveva osservato quella donna attraente ed elegante dietro la scrivania di mogano. Gli occhiali dalla leggerissima montatura metallica, i capelli biondissimi raccolti, il tailleur grigio che ne modellava l’austera figura. Le aveva offerto, con un sorriso leggermente sbeffeggiante come di chi mette alla prova, la sua prima intervista ufficiale e Giulia non ci aveva quasi potuto credere. Paolo Doria, il fantasma della musica leggera. Non era affatto andata male fino ad allora, ma bisognava concludere. Aveva scoperto la località in cui viveva, un posto di mare, e da lì era arrivata al suo numero di telefono. Gli aveva lasciato un sacco di messaggi in quell’ eccentrica mutissima segreteria che di volta in volta le proponeva una scala al piano o l’arrangiamento più famoso del Doria. Lasciava che la musica, la sua musica parlasse per lui, non si sporcava le mani con la quotidianità. E Giulia ogni volta, ripeteva il nome della rivista, il suo, il telefono, l’indirizzo e-mail. Anche questa volta aveva sbattuto giù il telefono, irritata. Ma chi si credeva di essere quell’odioso insopportabile arrogante strumentista? Però questa volta, all’improvviso, era apparso sullo schermo del suo pc l’avviso di ricezione di un messaggio. Paolo Doria le si stava concedendo

nonostante tutto


Nonostante tutto, l'Italia mi piace, amo la mia città, amo il cibo e il vino e quella luce speciale che c'è alla sera, poco prima del tramonto. Amo le pietre sconnesse delle strade più vecchie e gli scorci improvvisi e curiosi...quasi spuntassero per osservare i gruppi colorati e chiassosi dei turisti, quasi ammiccassero, a te fiorentino, come dire che ci sono cose che restano tra voi.

sotto il mare


Lei si sentì sale, onda, corrente, si sentì bolla d’aria danzante trasparente preziosissima nullità nell’Oceano, si sentì madreperla e nuoto di pesce, si sentì dondolìo di murena screziata d’oro, si sentì stupore, lo stesso stupore che provava davanti alla vita. Cercò ancora gli occhi del Mago e vide che lui aveva percepito tutte le esistenze che le erano appena passate nel sangue. Sorrisero. il mondo sembra ancora più grande da quando son crollate le barriere del mio bisogno di respirare. un'immersione notturna, adesso, ha ampliato anche la mia percezione del tempo. Poichè là nel nero assoluto, nel freddo che t'attanaglia, nella tua fioca luce che fa strada al movimento un po' goffo di chi le pinne non le ha di natura, là scopri esseri che vengono da altri tempi e che paiono essersi conservati a dispetto del giorno. là, la bellezza ha sorgenti inattese e opalescenze quasi incantatrici. Sono animali e piante notturne...che vivono nel buio della profondità e nel buio della notte. Eppure sfoggiano colori e trasparenze accattivanti, se illuminati. Capricci di una natura evidentemente vanitosa

definizione politica 19/05/2004


"Ohh, io ho quelli che un mucchio di gente definirebbe pensieri comunisti - disse Eliot con naturalezza - ma per l'amor del Cielo, papà! come si fa a lavorare con i poveri senza inciampare di tanto in tanto in Karl Marx? o nella Bibbia, se è per questo. Trovo inaccettabile come le persone di questo mondo rifiutino di spartirsi equamente le ricchezze" (Kurt Vonnegut da "perle ai porci") sul finire del mio primo anno da liceale (quando mi affacciavo timida al mondo, uscita di fresco dalla splendente teca di cristallo in cui la mia famiglia m'avea accuratamente conservata)incontrai un ragazzo. parlammo. aveva un maglione bianco piuttosto sporco in verità e jeans che avevano solo il ricordo di una tessitura omogenea, ricordo della stessa intensità di quello riguardante l'affascinante schiuma del detersivo. parlammo e mi spiegò che le mie idee erano di sinistra. Accettai di buon grado nonostante per me non significasse assolutamente una ceppa. Da quel giorno sono cambiate diverse cosette...ad esempio, pensate un po', ho attraversato anche la fase in cui davvero credevo nella politica attiva (vabbè ero giovane concetti come "corruzione", "conflitto d'interessi", "avidità", "cinismo" erano ancora parole che riservavo alla sfera dei "cattivi"). Poi sono guarita. Sto ancora cercando di capire se allo stato attuale delle cose, sarebbe possibile un'impostazione economica comunista conciliabile con una cultura libera e ricca. Cuba ci provò, un tempo ormai lontanuccio. Secondo me avrebbe potuto funzionare (SE non ci fosse stato l'embargo, SE Fidel non fosse impazzito, SE... SE...SE...). Credo, oggi, che lo snodo, la possibilità di riuscita di un regime economico dipenda dal grado di consapevolezza di chi lo accetta e lo vive. L'errore fondamentale dell'uomo (della massa? bah) credo sia stato e sia tutt'ora l'affidarsi ignaro a qualcuno (quando le istituzioni, quando leaders, quando l'orso di pelouche che da anni in segreto li accompagna e così via). Non potrà funzionare mai niente che sia imposto. Ma qualcosa che sia liberamente scelto sì. Come dalla citazione d'inizio, credo fortemente che individui correttamente informati e portati alla riflessione non possano non capire l'inequità del sistema capitalista (vabbene, vabbene sono un'illusa smettete di scuotere la testa, perdio!) QUINDI confido nell'educazione. bè? tutto qua? come tutto qua? vi pare poco arrivare a formarsi tanto chiaramente da poter spiegare e rendere appetibili le nostre posizioni e conclusioni a qualcun altro? e poi ora che la scuola è diventata CFCM (Centro per la Fossilizzazione dei Cervelli Migliori), dobbiamo fare da soli... e così...

Anna e Giù - 18/05/04


Al rintocco delle campane, unico e nitido, una turma festosa e scapigliata di ragazzini invase la scalinata della chiesa. Le dita polverose dei giochi in piazza prima della messa domenicale, strinsero come sempre la mia mano. Aveva questo modo di afferrarmi la mano sicuro ed esperto, quasi sfacciato a dispetto dei suoi sei anni. Gli calcai il berretto di lana sugli occhi ridendo “bada non guardarmi così, peste!” Ci lasciammo alle spalle le chiacchiere delle comari e i saluti del parroco e prendemmo la strada dei boschi. Potevamo camminare per ore calciando i sassi del sentiero in silenzio. Mi piaceva soppesare il diverso contatto della mussolina della gonna nera ingombrante, trattenuta dalla mano sinistra e della manina ruvida e tiepida, con la punta delle dita quasi gelata che stringeva la mia destra. Lui sembrava avesse un misterioso accesso alla mia testa: rideva soddisfatto e sbeffeggiante se s’imbatteva in un mio pensiero di tenerezza nei suoi confronti; se un’ombra di tristezza o preoccupazione velava d’improvviso la mia serenità aumentava la stretta sbirciandomi da sotto la visiera del berretto, quasi con timore. Così io. Scoprivo un ghigno di soddisfazione se in una giocosa rissa al mattino aveva avuto la meglio su un compagno, un brillio di rabbia mal contenuta per un rimprovero del parroco, un pensiero crudele e sadico, come solo i bambini hanno, al passaggio di una lucertola. Adorava inchiodarle con gli spilloni da cucito della madre alla staccionata. Sapeva bene che non potevo sopportarlo e allora si agghindava di uno sguardino innocente, falso almeno quanto irresistibile. Quel giorno entrambi rimandavamo il momento di rompere il silenzio. Arrivammo in cima alla strada. Faceva freddo, quel freddo di mezzo inverno che ti penetra nelle ossa. Ci sedemmo sulle grandi rocce lisce e umide che da sempre ospitavano i nostri momenti di fuga. “Buon compleanno Giù!”. Alzò la testa e mi guardò. Stringeva la piccola scatola tra le mani e mi guardava. Sembrava quasi adulto. Gli scarponcini battevano ritmicamente sulla roccia dando un senso al dondolio irrequieto delle gambe. “Non lo apri? È per te…” sforzai un sorriso. Lui non disse una parola. Scartò la velina e una specie di luce guerriera gli illuminò per un attimo lo sguardo. La piccola fionda tra le mani, si sporse a raccogliere un sasso. Prese la mira e una delle solite innocenti lucertole pagò la mia idea per il regalo del suo compleanno. Ghignò sfrontato. “perché te ne vai?” le poche parole sofferte, soffocate nell’incavo della mia spalla mentre si stringeva a me in un abbraccio iroso, quasi violento, mi colsero impreparata