martedì 1 luglio 2008

Impronte digitali


Avevo 15 anni e un sacco di buone speranze nel prossimo cambiamento del Mondo. Dopo un anno passato a fare doposcuola in un quartiere "socialmente problematico" di Firenze decisi di fare l'esperienza della colonia estiva. Come educatrce, s'intende.
Avevo 15 anni e a 15 anni si è giovani ed impreparati quasi sempre perchè non si sa nulla della Realtà se non ci si è dentro fino al collo.
Avevo 15 anni e Milan ne aveva 7.
Il nostro primo approccio fu fantastico: io un po' goffa ma già piuttosto energica nella salopette peruviana ripiegata fino al ginocchio e scalza, armata di shampoo contro i pidocchi e sapone.
Lui in mutande di cotone, le stesse di cento altri bimbi.
Timoroso e aggressivo fissava lo sguardo alla doccia, dietro di me.
Convincerlo che fosse una figata fu difficile almeno quanto trascinarlo via da sotto l'acqua.
Milan era il classico bambino terribile che nessun educatore vorrebbe accollarsi.
Tranne forse una bimbetta idealista e manfana di 15 anni.
A tavola suonava le stoviglie, le lanciava addosso agli altri bimbi, s'arrampicava dovunque.
Faceva a botte e si strusciava in qualsiasi posto potesse sembrare un pavimento.
La sera aveva paura del buio. Ma c'ero io lì e lui mi spiegava:
"Il buio nasconde tutto: i topi e i cani e i topi e i cani sono pericolosi specie se si hanno fratellini piccoli."
Piccoli come te?
"Noooooooo, piccoli davvero! Io sono grande.
Il buio arriva presto al campo e se ne va all'alba.
Il buio nasconde buche e sassi e buche e sassi sono pericolosi specie se si hanno fratellini piccoli.
I fratellini piccoli non sanno correre e a volte nemmeno camminare e però pesano un sacco se si deve andare un po' lontano e la mamma non può venire.
Perchè una cosa buona il buio ce l'ha: che nasconde anche la gente.
Perchè il buio porta il pericolo più grande, la cosa più brutta ma poi ci nasconde perchè la cosa non ci prenda.
La mamma non può mai venire, deve far finta di non averci visto. Io prendo mia sorella che è più piccola e ci nascondiamo nel buio.
Lo faccio sempre: la macchina arriva ha i fari forti che sembra cerchino i bambini.
Tanti bambini restano nel campo perchè le loro mamme non sanno che il buio può nasconderli.
La macchina arriva sempre con il buio.
Scende un uomo, ormai lo sappiamo. Lo chiamiamo l'uomo del buio anche se è bianco più della mia sorella. Prima che la macchina si fermi noi dobbiamo essere lontani. A volte la mamma riesce ad avvertirci prima che torniamo al campo così non dobbiamo nasconderci tra i topi e i cani.
Qualcuno dice che ha un odore buono come un profumo che usano le donne ma si prende le bambine e a volte non le riporta, a volte si e loro stanno zitte per un sacco di tempo e poi piangono e poi picchiano tutti e allora i grandi picchiano loro.
Il buio non lo sai mai che cosa nasconde. I cani, i topi, le buche e i sassi e l'uomo che profuma.
Oppure me e la mia sorella che è più piccola.
La mia mamma lavora e dice sempre che un giorno ce ne andiamo via.
Ma quello che è difficile è che lei ha 4 denti d'oro.
Secondo me sono belli i denti d'oro ma la mamma dice che a quelli che danno lavoro i denti d'oro non gli piacciono."

Il racconto è vero, volevo continuare nello stile in cui ho iniziato ma mi s'è chiusa la vena.
ma sai a chi le prenderei le impronte io?
non fatemi dir nulla va...

6 commenti:

Anonimo ha detto...

questo pezzo l'ha scritto un grande giornalista della RAI (Nevio Casadio). Si capisce bene che è un cronista (della scuola di Sergio Zavoli) nel prossimo post c'è quello che hai scritto tu insieme al Sindaco del Comune dove è successo il tremendo fatto.




Arrivai a Campello sul Clitunno il 28 marzo dello scorso anno. Mi mandava Enzo Biagi…



di Nevio Casadio


Arrivai a Campello sul Clitunno il 28 marzo dell’anno scorso. Mi mandava Enzo Biagi, a raccontare per Rt, il rotocalco televisivo che segnava il suo rientro in Rai, i vivi e i morti della tragedia che si era abbattuta lì, il 25 novembre del 2006. Successe di sabato, il campanile aveva battuto il tocco dell’una, quando all’Umbria Olii, esplose il primo silos.

In quel boato, le fiamme raggiunsero gli altri serbatoi, altri boati, i mostri d’acciaio carichi di olio infuocato saltarono in aria per una cinquantina di metri, schiantandosi a terra in direzioni opposte. Sembrava che sulla raffineria di olii vegetali, l’Umbria Olii, una delle maggiori aziende produttrici del settore in Europa, si fosse abbattuto un bombardamento pesante. E sui silos, quattro operai che stavano lavorando, morirono carbonizzati.

Quando mi ritrovai in quel piazzale della fabbrica esplosa qualche mese prima, il giovane sindaco di Campello, Paolo Pacifici, ricordò la tragedia: “Squilla il telefono, mi dicono che c’è stato un’esplosione all’Umbria Olii, corro nel posto dove siamo adesso e vedo una scena apocalittica, erano esplosi nel giro di pochi minuti tre o quattro silos, fiamme e fuoco ovunque, la gente di Campello vedeva questo fumo nero, densissimo, che si alzava verso il cielo e cominciava ad avere paura”.

L’Umbria pianse così i suoi morti di lavoro, Maurizio Manili, 42 anni, Giuseppe Coletti, 43 anni, Tullio Montini 46 anni, Vladimir Toder 28 anni, cittadino rumeno.

Sul piazzale dell’azienda, incontrai il presidente dell’Umbria Olii, Giorgio Del Papa, che mise subito le mani avanti: “Hanno definito la mia azienda, l’azienda killer. Mi hanno definito massacratore di operai a capo di un’azienda killer. L’incidente non è dovuto certo al mio personale, ma è stato causato dal personale della ditta appaltatrice che è venuta a fare dei lavori e che stava facendo dei lavori in questa azienda da nove anni. Conosceva perfettamente l’azienda, conosceva perfettamente la pericolosità, perché in nove anni non si possono non imparare”.

Parole agghiaccianti, verso i morti e i vivi.

In paese, gli operai, di fronte alle domande sulla realtà dell’azienda Umbria Olii e del titolare Giorgio de Papa, si trinceravano per lo più, dietro al silenzio. Ricordo che lamentai la mia delusione al sindaco, per questa omertà diffusa nel cuore della civilissima Umbria. Quando, da qualche parte, sbucò un ragazzo che si era convinto a dire qualcosa, chiedendo assicurazioni sul rispetto di un anonimato a prova di ferro, come può garantire le riprese della telecamera di un’ombra riflessa nel fiume.

Il ragazzo esordì denunciando il clima angosciato delle settimane precedenti la tragedia: “La temevamo, se ne era parlato parecchie volte, se ne era parlato anche la settimana prima, era una cosa preannunciata. Sapevamo di essere operai a rischio, in un lavoro fatto per mille euro al mese”.

Il ragazzo, l’unico a parlare, dipinse il titolare della fabbrica, Giorgio Del Papa, come un padrone temuto, che non andava tanto per il sottile, che andava giù duro: “Lui mette paura a tutti quanti. È il proprietario, ha il potere di fare il bello e cattivo tempo, ti può mettere in mezzo ai casini quando vuole, perché ha il potere di fare questo. Dentro la sua azienda, ma anche in quelle degli altri. Ci sta il problema, perché lui ha il potere pure di parlare male di un’altra persona e così non ti fa più lavorare da qualsiasi parte, ci ha questa arroganza di poter decidere e stabilire che se uno non lavora con lui, non lavora pure da nessuna altra parte”.

In quel 25 novembre del 2006, l’olio tracimato dal deposito in fiamme dell’Umbria Olii si sparse nelle strade, un fiume nero si riversò a valle, come una colata di lava, invase le fogne, impregnò i terreni delle campagne, finendo nel fiume Clitunno, per un tratto di 6 kilometri. In pochi minuti, un angolo tra i più belli d’Italia, qual è l’oasi naturale delle Fonti del Clitunno cantate da Plinio e Carducci, diventò il “simbolo” di un disastro ambientale, nel cuore dell’Umbria, il regno della quiete. “Com’è possibile?”, chiesi al sindaco. “L’Umbria è il regno della quiete e il nostro paese, questo nostro piccolo comune più che mai, è immerso tra le colline olivate, sotto i suoi castelli, si sviluppa su un tipo di economia che non è propriamente quella industriale, l’economia legata alla filiera del turismo, dell’ambiente e della cultura. Noi abbiamo una zona industriale anche ricca, ma non è il modello di sviluppo sul quale abbiamo deciso di crescere”.

Eppure, la raffineria Umbria Olii, dai fatturati altissimi ma che dava lavoro ad un esiguo numero di famiglie, era esplosa causando la perdita della vita di poveri operai, causando un disastro ambientale immane, era lì ubicata nel regno della quiete, in un piazzale che come una ferita si allargava sempre più, con le ruspe che avevano appena sottratto alla montagna, altro materiale, altro brecciolino, per immetterlo nel mercato.

Andammo a trovare una vedova, Fiorella Grasselli, vedova dell’operaio Giuseppe Coletti. Ci inerpicammo in un appartamento, due stanze con bagno, fotografie di una giornata di sole, appoggiate al vetro di una credenza. In una nicchia, un presepe da non spostare più: “Quel giorno ho scoperto tutto da sola. Nessuno mi ha avvisato, nessuno mi ha detto niente. Non vedendo arrivare a casa mia marito, ad un certo punto ho telefonato alla moglie di un suo collega di lavoro. ‘Guarda Fiorella – mi dice – che è successo un incidente…, fiamme e fiamme, sta bruciando tutto, fatti portare quassù. Io sto qua fuori…’. Saranno state le 6 e 30 o le 7. Sono andata con mia sorella, mio cognato, gli amici… . Quando arrivai là, vidi tutto quell’inferno”.

Le carcasse dell’inferno, erano un monumento alla tragedia, sparso ancora nel piazzale dell’Umbria Olii, a testimoniare lo scenario di una guerra pesante.

Il padrone-presidente dell’Umbria Olii spa, Giorgio del Papa, contestava l’arbitrarietà dello Stato. “Se lo Stato ha dato per questa sciagura dei proventi, io credo che diversi di questi proventi dovrebbero essere dati per la ripresa di questa azienda, per la rimessa, per la ricostruzione o per lo meno, per togliere tutta questa roba che è bruciata.. . La presenza di questa roba qui, moralmente incide moltissimo, perché venire qui tutte le mattine e vedersi queste rovine del rogo, significa ricordarsi tutte le mattine ciò che è accaduto. E per uno che deve fare impresa non è facile.. . Per uno che fa impresa non è facile lavorare dovendo pensare alle disgrazie, a quello che è accaduto qui dentro, perché poi c’è il mercato e il mercato ha bisogno di concorrenza, ha bisogno di competizione, ha bisogno di stare sul mercato”.

Fiorella Grasselli, la mattina del 25 novembre vide uscire dalla porta, il marito Giuseppe Coletti che si recava al lavoro all’Umbria Olii. L’ho visto partire la mattina e lo sto ancora ad aspettare la sera. Doveva ritornare alle 2 e mezza, invece non è tornato più. Come non sono tornati più i suoi colleghi, Maurizio, Tullio e Vladimir, ragazzo rumeno.

Anonimo ha detto...

"Art. 1. L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. [...] Art. 2.La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo [...] Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione [...]. Art. 4. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.Non importa andare oltre nella lettura della Costituzione per poter affermare con certezza che non esista alcun articolo che parli di dovere di morte, dovere di umiliazione, dovere di violenza della dignità, dei sentimenti, dovere di infangare il nome di chi muore innocente.Eppure, un'impresa oggi viola i diritti fondamentali dei cittadini italiani o di chi come loro vive e lavora in Italia, calpesta le loro famiglie distrutte e il loro nome.

Fiorella vive in una casa piccola piccola, al centro di Amelia in provincia di Terni. Quando ti apre il portoncino ti trovi davanti una fila di scalette ripide che portano direttamente in cucina, sulle pareti le foto sue e di suo marito a cavalcioni della moto. Morena abita poco lontano, alla periferia di Narni, in una casa nuova vicino ad una distesa di grossi capannoni industriali. Con lei c'è Yuri, suo figlio, compirà 18 anni tra pochi mesi ed il go-kart è la sua passione. Poi c'è Anila, 35 anni, sta a Terni con le sue bimbe: Sagma che ha già 9 anni e Branjola. Anila è arrivata dall'Albania da qualche anno per amore: doveva raggiungere il marito, Vladimir, che stava in Italia già da un po'. A Massa Martana, aperta campagna in provincia di Perugia, infine, vivono Catia e sua figlia Enrica, diciannovenne.Sette donne ed un ragazzo, tutti accomunati da un unico destino, che il 25 novembre del 2006 cambiò la loro vita.Quel sabato mattina Giuseppe, Maurizio, Vladimir e Tullio si erano trovati presto per fare colazione. Raggiunsero il piazzale del grande stabilimento e salirono in cima al silo, tutto d'acciaio, lucido e freddo, ricoperto dal sottile strato della brina di novembre. In cima a quell'oggetto incombente, gelido ed immenso potevi ammirare la valle che Francesco di Assisi, mille anni prima, descrisse come quanto di più meraviglioso al mondo avesse mai visto. Mentre loro lavoravano lì sopra, Fiorella a casa stava preparando l'impasto per la pizza. Yuri aspettava l'autobus. Sagma e Branjola, per mano, tornavano da scuola. Enrica sbuffava camminando sola per strada.Fu in quel momento esatto che quel mostro d'acciaio, con un rumore lugubre, sordo ed oscuro si proiettò verso il cielo, scagliando in aria i quattro uomini.

Quattro operai come tanti, con famiglie come tante, in continua lotta per una vita dignitosa, per garantire ai figli quelle poche garanzie che il sistema del lavoro oggi permette di avere.Perché non è mica facile mantenere due bimbe piccole. E nemmeno garantire un quotidiano sereno ad un giovane uomo o ad una giovane donna.Che si sia italiani o stranieri poco conta. Bisogna lavorare. Anche il sabato. Avere molta o poca esperienza non fa differenza. Chi costa meno vince, comunque.

E di sabato Giuseppe, Maurizio, Vladimir e Tullio volarono in cielo sopra all'enorme silos. Probabilmente avranno guardato la valle da là. La valle così bella che hai la tentazione di credere in Dio.Un bello spettacolo davvero, doveva essere. Ma non abbastanza bello da essere l'ultimo. Non abbastanza da poter prendere il posto dello sguardo forte e pieno d'amore di una donna che saluta il tuo rientro, o di quello pieno d'adrenalina di un figlio appena uomo sul go-kart o, ancora, di quello irrinunciabile di una figlia: che abbia nove o diciannove anni non importa. Un giorno l'hai presa tra le braccia e, per te, lei non ha più cambiato sguardo.Un bello spettacolo, la Valle, ma non abbastanza per morire.Una bella Costituzione la nostra, ma non abbastanza per essere rispettata.Una bella storia quella di San Francesco, ma non abbastanza per ripetersi.Questo è ciò che accadde a Campello sul Clitunno, in provincia di Perugia, meno di due anni fa, all'interno di una azienda di raffinazione di olio di oliva. Abbiamo sempre, sinceramente, creduto nella magistratura. Non in tutti i magistrati che sono uomini e donne capaci di sbagliare, ma nell'Istituzione che la nostra Costituzione repubblicana definisce meravigliosamente nel titolo IV.Verità e giustizia. Scoprire la verità, accertare le responsabilità di un reato, individuare e perseguire i colpevoli sono presupposti essenziali per garantire la convivenza civile di una comunità. Al tempo dicemmo che, dopo quello che accadde quel giorno, andavano verificate le compatibilità di quell'azienda e del processo produttivo messo in atto al suo interno con il nostro territorio. Grazie al lavoro della magistratura e dei tecnici di cui ci si è avvalsi, grazie alle indagini dei procuratori ed alle valutazioni dei giudici volevamo capire, a garanzia di tutti, cosa fosse realmente successo e come quel sistema di produzione potesse impattare sul nostro ambiente e sulla nostra terra.Ora non ha più senso attendere che queste valutazioni emergano e che questi approfondimenti vengano effettuati. Oggi i titolari di quella impresa vorrebbero individuare come responsabili civili dell'accaduto i morti e quindi i loro eredi: due bambine di meno di dieci anni, una ragazzo neppure maggiorenne ed una ragazza di meno di venti anni che hanno perso per sempre il padre, quattro donne che hanno perso il proprio marito.Oggi la violenza di tale richiesta uccide di nuovo la dignità di ogni lavoratore e di ogni famiglia. La dignità di Fiorella, Morena, Anila, Catia, Yuri, Sagma, Branjola, Enrica.Dopo la surreale richiesta di risarcimento dei danni ai familiari delle vittime (trentacinque milioni di euro) la valutazione da fare è un'altra: quella dell'assoluta incompatibilità umana e sociale di chi ha fatto tale richiesta con la nostra civile comunità".

Nina ha detto...

ma nessuno ancora mi ha detto se sia stato pubblicato oppure no e in caso dove...fra poco mi toccherà pubblicare il mio pezzo originale qui, come sempre.

Anonimo ha detto...

se pullbichi il pezzo originale qui non fai male. La cosa è stata pubblicata in parecchi giornali. Ieri per esempio, in una diretta su rai news 24 si è parlato anche di questo articolo. Oggi su l'Unità c'era, tra gli articoli di Vincenzo Cerami, Lidia Ravera ed Oliviero Bhea... ma mi hanno chiesto un numero di battute preciso e l'ho dovuto modificare. Repubblica ne ha pubblicato un estratto, ma non mi ricordo quando...

Anonimo ha detto...

Perche non:)

Anonimo ha detto...

Si, probabilmente lo e